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Perdono

Ho letto recentemente sul giornale un articolo sul perdono e mi ha toccato vedere come si possa banalizzare un argomento così importante. Il sunto dell'articolo era: si può perdonare, certo, ma è sbagliato farlo se l'altro non si pente, non è giusto. Solo alcuni cristiani lo fanno, ma esagerano. 
L’argomento, il perdono, è uno di quelli che mi stanno più a cuore, in quanto credo che sia la chiave per risolvere molti dei problemi piccoli e grandi di questo mondo. Colgo l’occasione per condividere con voi alcune mie riflessioni.
Io credo che non si debbano porre condizioni al perdono, altrimenti non è perdono. Il perdono è una scelta interiore che ciascuno (chi si è sentito offeso) fa per sé, non per l’altro. Significa scegliere di non vivere più nel passato, di sentirsi liberi da un legame di sofferenza, di accusa e di colpa nei confronti di un’altra persona (chi ha offeso). Per questo non devo/non posso aspettarmi nulla dall’altro, anzi, l’altro non c’entra più con me per quel fatto. Io sono quindi libero di vivere altre esperienze, di voler bene ad altre persone e anche a lui. Poiché nell'articolo viene citato il Vangelo, vorrei ricordare che Gesù, appena prima di morire, ha detto: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”, e non “Padre, perdonali quando capiranno che cosa hanno fatto”. E poi, dicendo di perdonare "Settanta volte sette" intendeva dire... infinitamente.
Restando nel Vangelo, c'è il racconto del figliol prodigo che ci sposta l’attenzione sull’oggetto del perdono: il ragazzo per sentirsi perdonato, per sentire la riconciliazione con il padre, ha dovuto passare attraverso il pentimento. Certo, ma il padre l’aveva già perdonato in cuor suo. 
Altrimenti il perdono condizionato è esattamente quello che dà inizio alle ripicche alle chiusure e, con il tempo, alle malvagità di cui sentiamo parlare quotidianamente. Se io mi aspetto qualcosa dall’altro, ma non apro prima il mio cuore al perdono incondizionatamente, l’altro può fare qualunque cosa e me non basterà mai, non sarò mai soddisfatto e rimarrò chiuso fino a covare la famosa vendetta. Non sarà sufficiente neanche fare giustizia. 
Credo che ciascuno di noi può trovare nella propria esperienza esempi per questo, anche senza essere stati coinvolti in drammi nazionali. Il vicino di casa, l’amico, il fratello che ci ha offeso dal quale aspettiamo per anni delle scuse fatte a nostro modo e non accettiamo quelle fatte a suo modo, creando a nostra volta offese a lui e alla sua famiglia, per le quali non chiediamo scusa perché le riteniamo nostro diritto (“con quello che lui ha fatto a noi!”) …. E così via per mesi, anni, secoli, in una “micidiale spirale a catena di ritorsioni…”, come il Papa ha definito la guerra in Medio Oriente.
Chi stabilisce l’effettivo grado di pentimento? Nessuno può decidere come deve pentirsi (o dimostrare il pentimento) l’altro, ciascuno lo sa nella propria coscienza. E Dio lo sa. 
Purtroppo io penso che la strada del perdono sia la più difficile, perché a volte preferiamo avere ragione a tutti i costi invece che essere felici. E il perdono ci renderebbe più felici. Oltretutto paradossalmente il perdono – anche non richiesto – smuove molto di più la coscienza dell’offensore rispetto alla rabbia o alla vendetta, che, al contrario, gli permettono di stare in quel ruolo di “cattivo” che per qualche ragione si è scelto o trovato addosso e di avere quindi la scusa per difendere questo ruolo. Il perdono è una via d’uscita da una relazione sbagliata. E’ un atto d’amore nei propri confronti.
Meno male quindi che in questa società ci sono ancora persone come i cristiani (purtroppo non tutti), come i famigliari di Bachelet anni fa, come il Papa con il suo attentatore, e come le tante persone che lo fanno nel quotidiano, che ci ricordano che è possibile scegliere il perdono invece che la vendetta. Senza condizioni.

Cordiali saluti,

Giulia Aloni
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